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dal passato al presente

Storia della difterite

(e sua profilassi) (1)

a cura di: Dott. Antonio Semprini (pediatra)

La difterite, come affezione della gola soffocante e dalla natura contagiosa, era conosciuta sicuramente fin dalla remota antichità. Lo si può dedurre dalle descrizioni delle diverse “angine” che affliggevano gli uomini, tra le quali una si distingueva per la sua gravità e elevata mortalità. Anche se le diverse forme di angina non furono nosologicamente inquadrate che nel XIX secolo (Bretonneau), tuttavia la difterite è identificabile nelle descrizioni fatte dai diversi autori del passato più o meno remoto.
Nel Talmud viene citata un’affezione della gola chiamata “Askerà” che era obbligatorio denunciare alla comunità col suono della tuba (safar) in segno di allarme; ciò fa pensare ad una forma morbosa particolarmente pericolosa e contagiosa, come la difterite.
Ippocrate descrive varie specie di angine, una delle quali mostra di avere i caratteri della difterite (sibilo della faringe, retrobocca ricoperto di saliva densa e vischiosa che il malato riesce a sputare con molta difficoltà, impossibilità del malato di stare sdraiato per il pericolo di soffocare). La prima vera descrizione della difterite la si fa risalire ad Archigene di Apamea, nato ad Apamea, in Siria, venuto a Roma sotto l’impero di Traiano (53-117 d. C.), citato anche da Giovenale come medico di valore, ma valido soprattutto come chirurgo. Ma fu Areteo di Cappadocia (fine II secolo d. C.) a farne la descrizione più esaustiva e drammatica. Areteo scrive: ”In quelli che sono presi dalla cinanche(2), l’infiammazione attacca le tonsille, le fauci e tutta la bocca. La lingua sporge fuori dai denti, le labbra si fanno prominenti e da’ loro orli fluiscono la saliva e una pituita crassa fuor di modo e frigida: la faccia rosseggia e si gonfia; gli occhi in fuori, lucenti e rosseggianti: la bevanda è respinta alle narici. I dolori sono acuti, ma quanto più minaccia la soffocazione, tanto meno sentiti: il petto e il cuore sembrano ardere tra le fiamme, e altrettanto ardente è il desiderio d’aria fresca; e così in progresso va assottigliandosi la respirazione, che finalmente impedito il passaggio dell’aria nel petto, restano i miseri soffocati."(3)
Ad Areteo si richiameranno gli autori bizantini Ezio d’Amida (V-VI sec.) e Paolo d’Egina (VII sec.).
Galeno (129-201 d. C.), a sua volta, nomina un’angina “strangolante”.
Già nel periodo romano ci si pose il problema di come risolvere il grave quadro asfittico delle forme ostruttive delle alte vie respiratorie e Asclepiade di Bitinia (I secolo d. C.) seguito da Antillo (III secolo d. C.) raccomandarono la tracheotomia.
Del periodo medievale non sono stati trovati scritti che descrivessero sintomi ascrivibili alla difterite ed alcuni (Ackerknecht) pensano che in quel periodo la malattia fosse in una fase di quiescenza. (Nel Medio Evo, dopo la caduta dell’Impero Romano, la popolazione si era rarefatta notevolmente disperdendosi in piccoli villaggi e le città si erano spopolate, perciò le epidemie avevano minore facilità di manifestarsi).

Ma nel XVI secolo furono descritte numerose epidemie di difterite in Inghilterra, Paesi Bassi, Francia, Svizzera, Spagna. Nel 1640 Baillon descrisse un’epidemia verificatasi in Parigi nel 1576, particolarmente violenta.
La tracheotomia torna ad essere raccomandata dai più valenti chirurghi tra il XVI e il XVII secolo come il Guidi, Fabrizio d’Acquapendente, Paré, Severino e altri. Fabrizio d’Acquapendente (1533-1619), uno dei più grandi anatomisti e chirurghi dello studio di Padova, si premurava però di sottolineare che :”(…) si deve tagliare in ogni difficoltà di respirazione, dove è pericolo sovrastante di soffocamento e gli altri rimedi non giovano; se però tutta l’aspra arteria (la trachea, N.d.R.), e’ l polmone non sieno ripieni di lordura e sporciztia, per cagion della quale necessariamente si affoghi il paziente (…), richiamandosi a quanto affermato dagli autori antichi come Rhazes, Avicenna, Avenzoar. Secondo Fabrizio quindi la tracheotomia si sarebbe resa necessaria in presenza di una grave difficoltà respiratoria di tipo ostruttivo dalla laringe in su, mentre: ”(…) dove è in giù (sotto la laringe, N.d.R.), se n’ha d’astenere (…).

Nel XVII secolo le descrizioni della malattia si fanno sempre più numerose, soprattutto nella Spagna che è flagellata da devastanti epidemie del “mal del garrotillo”, come veniva chiamata la difterite in quel paese, dal mezzo usato (la garrota) per strangolare i condannati a morte(4).
Ne fanno testo le opere di Francisco Perez(5) e di Casales P(6). Perez oltre che descrivere i sintomi del morbo fa un chiaro riferimento all’immunità acquisita, quando scrive:”(…) molti vengono colpiti da questo morbo, ma non vi ricadono (…)” e spiega l’etiologia della malattia con argomentazioni di tipo umoralistico, scrivendo: ”(…) è una profonda putrefazione dei muscoli della gola, che trae la sua origine da un umore mordace e corrodente, che deve essere allontanato dall’organismo (…)”.
Anche Napoli nel 1617 fu colpita da una tremenda epidemia, descritta da Foglia e da Sgambati(7). Mentre il primo credeva ancora che le cause del morbo risiedessero nella corruzione dell’aria dovuta all’influsso maligno degli astri, il secondo dichiarava invece la sua contrarietà a queste credenze.
Sgambati descrisse molto bene la malattia con le caratteristiche membrane bianche, la difficoltà di respiro e la morte per soffocamento, corredando la descrizione con riscontri anatomo-patologici e facendo la diagnosi differenziale con altre forme di angina.
Straordinaria intuizione riguardo alla neurotossicità della malattia ebbe l’anatomico Tommaso Bartolini, che nel suo “De angina puerorum”8 sostenne che "l’angina soffocativa", come lui la chiamava, fosse causata da un virus tossico (l’esotossina difterica) contagioso che, passando attraverso le narici, andasse a contaminare il cervello e il midollo spinale. Egli infatti aveva notato nel paziente affetto una debolezza generale accompagnata a volte da strabismo.

Nel XVIII secolo la malattia tardò ancora ad essere nosologicamente inquadrata; infatti anche il più noto dei pediatri di questo secolo, Rosen de Rosenstein, scrisse nel suo “Trattato delle malattie dei bambini”(9): ”I fogli periodici di Stoccolma fanno sovente menzione di bambini morti per malattie sconosciute. Fra queste si può annoverare un mal di gola talmente ignoto al nostro popolo che finora non ha ricevuto un nome proprio. Io non veggo nemmeno che abbia nome presso gli altri popoli d’Europa, eccettuata la Scozia, dove si chiama “morbus strangulatorius”. I medici stranieri non ne parlano più dei nostri etc.”.
Ma nello stesso periodo gli studi sulla difterite, che non aveva ancora assunto questo nome, si fecero più intensi. Le due tremende epidemie che avevano colpito Cremona nel 1747 e nel 1748 indussero Martino Ghisi (1715-1794) a compiere osservazioni approfondite anche di tipo anatomo-patologico. Queste gli consentirono di descrivere per primo le pseudomembrane difteriche, trovate nello sputo dei malati e nella sezione dei cadaveri e ad evidenziare all’esame obiettivo, fatto sul vivente malato, la paralisi del velopendulo. Questi suoi lavori gli meritarono dal Bretonneau l’appellativo di “le père du croup”. Il Ghisi distinse le angine in leggere, a localizzazione faringea, e gravi o “strepitose” a voler indicare, con questo aggettivo, il caratteristico rumore respiratorio dovuto all’ostruzione laringea.
Nel 1765 il medico scozzese Francis Home (1719-1813) coniò il termine “croup” per designare l’angina soffocante in un suo libro sulle angine maligne, ma incorse ancora nell’errore di considerare la forma faringea, più benigna, e quella laringea o croup, come due entità nosologicamente distinte, dovute a cause diverse. Nello stesso errore cadde anche Samuel Bard (1742-1821), della scuola di Edimburgo, mentre ancora nel 1834 il francese F. Fourquet , medico delle epidemie del Dipartimento dell’Alta Garonna, nel suo Essais sur le croup, sosteneva la non contagiosità della malattia. Nella scuola tedesca, autori di grande rilievo, come Virchow e Schonlhein, sostenevano che l’angina difterica era un’infiammazione locale; niente di infettivo, dunque.
La gravità della malattia, che non risparmiò neppure la famiglia di Napoleone Bonaparte, quando morì di difterite il nipotino di 5 anni figlio di Ortensia Beauharnais e Luigi Bonaparte, indusse lo stesso imperatore a bandire un concorso che assegnava 12.000 franchi “all’autore della migliore memoria sulla natura di questa malattia e sui mezzi di prevenirla e di assicurare il successo del suo trattamento", ma i risultati di 79 memorie, di cui due premiate, non portarono a nulla, perché ancora improntate ad un grossolano empirismo.

Bisognerà inoltrarsi nel XIX secolo prima di fare un passo in avanti nell’inquadramento nosologico di questa malattia infettiva, quando Bretonneau (1778-1862), nel 1826, ammise l’identità della forma faringea con quella laringea o croup, assegnando alla malattia il nome di difterite(10). Gli studi di Bretonneau furono proseguiti dal suo grande allievo Trousseau (1801-1867), che ammise la infettività della malattia affermando anche che questa, pur essendo localizzata alla gola, immetteva i suoi veleni in tutto l’organismo portandolo a morte, intuendo la presenza delle “tossine”. Egli riuscì a guarire della difterite un bambino cauterizzando le membrane difteriche con nitrato d’argento e con insufflazioni di polvere di allume e sostenendolo fisicamente con misture toniche a base di china.
Trousseau ebbe anche il merito di aver riesumato il metodo della tracheotomia per i casi di urgenza, sostenuto in questo da tutti i chirurghi e dal suo maestro Bretonneau. Pur meritevole nelle intenzioni, il suo metodo fu però di ostacolo all’accettazione di un'altra tecnica meno cruenta che è quella della intubazione.
Preceduto dal tedesco G. F. Dieffenbach che tentò una sua prima esperienza di cateterismo laringeo nel 1839 all’Ospedale della “ Charitè” di Berlino, il vero ideatore della tecnica della intubazione fu il pediatra francese Bouchut che presentò il suo metodo il 18 settembre 1858 all’Accademia di Medicina di Parigi, dove però fu ostacolato dallo stesso Trousseau, relatore dell’Accademia, che condannò il metodo per i difetti dello strumento.
Circa trent’anni dopo, nel 1885, l’americano O’ Dwyer (1841-1908), all’insaputa delle pubblicazioni del Bouchut, annunziò un suo metodo d’intubazione, raccomandandolo nei casi gravi al posto della tracheotomia, trovando l’appoggio del grande pediatra Abraham Jacobi (1830-1919), che lo lanciò in tutta l’America e nel resto del mondo. In Italia fu Francesco Egidi a praticare tale metodo nel 1889. Il metodo dell’intubazione tracheale ebbe la sua ufficiale consacrazione nel 1900 al Congresso Internazionale di Pediatria e Laringologia di Berlino.
O’ Dwyer, nel 1908, conobbe purtroppo la triste sorte di morire della stessa malattia, contratta durante la sua generosa e infaticabile assistenza ai piccoli difterici.
L’identificazione dell’agente causale della difterite fu fatta da E. Klebs nel 1883, quando egli riuscì a colorare dei campioni ottenuti dalle membrane difteriche.
L’anno successivo, nel 1884, Loeffler riuscì a coltivare il microrganismo in terreno artificiale e mostrò che esso provocava nelle cavie un’infezione mortale molto simile alla malattia umana. Constatò anche che i bacilli difterici si trovavano solo nelle pseudomembrane e non in circolo.

(1)Malattia infettiva acuta dovuta a un batterio Gram positivo asporigeno (Corynrbacterium diphteriae)
(2)Termine latino sinonimo di “angina”, derivato dal greco “synanche”.
(3)Da : ARETEO di Cappadocia, Delle cause, dei segni e della cura delle malattie acute e croniche, libri otto volgarizzati da Francesco Puccinotti, Livorno, Tipografia Bertani e Antonelli e C., 1844.
(4)Ma verrà chiamata anche :morbus strangulatorius, soffocatio stridula, male di gola affogativo, angina soffocante.5)Liber de affectionibus puerorum una cum tractatus de garrotillo appellato. Madrid, 1611
(6) De morbo garrotillo appellato. Madrid, 1611
(7) De pestilenti faucium affectu,Neapoli Saeviente opusculum. Napoli, 1620.
(8) Edito a Parigi nel 1646
(9) Edito a Stoccolma nel 1764 ( trad. Italiana di G. B. Palletta, Milano 1780
(10) Dal greco “diftera”, che significa membrana

La sieroterapia e la sieroprofilassi
La difterite si dimostrò essere più facile da studiare sperimentalmente rispetto al tetano, perché mentre quest’ultimo si manifesta tardivamente, quando la tossina è già fissata al tessuto nervoso con legame irreversibile, la tossina difterica colpisce lentamente e la malattia può essere riconosciuta precocemente rispetto all’andamento ingravescente e fatale che sovente la caratterizza.
Nel 1890 Fraenkel, Behring e Kitasato scoprirono che il siero di animali immuni dal tetano contiene una sostanza in grado di neutralizzare la tossina tetanica, dando inizio alla storia della sieroprofilassi e sieroterapia. Subito dopo, nel 1891, lo stesso Behring (1854-1917) pubblicò un lavoro sull’immunizzazione contro la difterite con procedure analoghe a quelle seguite per il tetano.
Emile Roux (1853-1933) e Alexandre Yersin (1863-1943) nel 1888, nel laboratorio dell’Istituto Pasteur, scoprirono l’esotossina difterica e dimostrarono che i filtrati di brodocoltura uccidono gli animali nella stessa maniera dei bacilli viventi, inducendo Roux ad affermare: ”I microbi sono soprattutto pericolosi per le sostanze che essi producono11”.
Come Pasteur nel 1880 aveva osservato che il filtrato di coltrura di colera dei polli, passato attraverso la candela di Chamberlain, e quindi esente da germi, era capace di indurre la stessa malattia, così Roux e Yersin, ripercorrendo la stessa strada, iniettando siero di sangue filtrato di malati di difterite in animali, riprodussero integralmente il quadro clinico e anatomo-patologico della malattia, concludendo che la causa della malattia doveva risiedere nel sangue dei malati, indipendentemente dalla presenza di germi e che si dovesse trattare di veleni elaborati dal metabolismo dei germi stessi.
I lavori di Ehrlich (1854-1915) permisero di interpretare il ruolo degli anticorpi come sostanze che si legano chimicamente alle tossine impedendo a queste di raggiungere gli organi bersaglio. La sua esperienza era partita dalla constatazione che l’iniezione nell’organismo dei veleni di origine vegetale come la ricina e l’abrina stimolasse la formazione di anticorpi protettivi12. Egli nel 1897 riuscì a titolare la tossina e l’antitossina difteriche negli animali da laboratorio.
Nel 1890 Behring riuscì a “svelenare” questo veleno, che lui per primo chiamò ”tossina” difterica, con Tricloruro di iodio, usandola come sostanza stimolante un’immunità specifica negli animali infettati13. Tuttavia questa sostanza si rivelò facilmente deperibile e non adeguatamente sfuttabile come vaccino.
Nel 1891-92 Roux, con Louis Martin e Auguste Chailloux, riuscì ad immunizzare animali contro il vibrione settico e contro la difterite con dosi sub-patogene di tossina. Dal siero di questi animali vaccinati ottennero poi il siero per la sieroprofilassi-terapia. La produzione di siero antidifterico a livello industriale per consentirne l’utilizzo a livello mondiale fu iniziata dal francese Roux.
Roux produsse il siero antidifterico nell’Istituto Pasteur di Parigi immunizzando il cavallo e i suoi primi sieri furono usati nel 1894 facendo crollare le morti per difterite dal 60 al 24%.
Per evitare il diffondersi dell’infezione si ebbe l’avvertenza di trattare anche i famigliari dei malati con dosi preventive di siero, nel tentativo di circoscrivere il focolaio d’infezione.
A Torino, dopo l’adozione della sieroterapia la mortalità per difterite passò dal 67,6-41,9% del 1888-1894 al 22% del 1897, secondo una statistica fatta da Francesco Abba del laboratorio dell’Ufficio d’Igiene di Torino.
Ma la riduzione della mortalità per difterite non fu da ascriversi solamente alla sieroprofilassi.
Infatti, ancor prima dell’introduzione della sieroterapia la mortalità per difterite in Europa era diminuita, specie in Inghilterra, per merito della diagnosi precoce, delle misure igieniche e di isolamento, dell’obbligo di denuncia e delle migliorate condizioni socio-sanitarie della popolazione in generale, come, del resto, si era verificato per tutte le altre malattie infettive, se si esclude il periodo attorno alla I Guerra Mondiale.
Inoltre la sieroterapia e la sieroprofilassi non furono sufficienti a interrompere la catena di trasmissione della malattia, tantomeno ad eradicarla.
Ciò indusse valenti medici come l’italiano Angelo Celli(14) ad intervenire nel 1911 contro la proposta di rendere obbligatoria la sieroprofilassi antidifterica, sia per l’elevato costo sia per la dimostrata incapacità di questa a eradicare l’infezione, proponendo,invece, sul modello inglese, di farne un uso limitato ai focolai epidemici per circoscriverli, adottando anche le misure dello stesso modello inglese cui ho fatto riferimento sopra, oppure di offrirlo gratuitamente alle sole classi povere come facevano i comuni di Milano, Torino, Roma.
Ciò non impedì, tuttavia, che il valore della sieroterapia antidifterica nel malato fosse universalmente riconosciuta. Non si eradicava l’infezione, ma una vita umana poteva essere salvata, ed era già una grande conquista.
Intanto le epidemie di difterite si ripresentavano con una certa ciclicità, anche se meno gravi di un tempo.
A Milano, per esempio, si ebbero ondate epidemiche nel 1902-1906, 1916-1917, 1927-1934 e così nei maggiori centri urbani d’Europa come Copenhagen, Berlino, Vienna, Parigi, Zurigo.
La ciclicità della malattia è dovuta al fatto che essa dà un’immunità permanente a quella parte della popolazione che ne è rimasta colpita ed è guarita nel corso dell’epidemia riducendo negli anni successivi la circolazione del germe; ma a mano a mano che si ingrossa la popolazione della nuova generazione di bambini che non sono stati esposti alla malattia e quindi privi di una sia pur minima carica immunitaria, si rompe un equilibrio col riaccendersi dell’epidemia. Va ricordato che la difterite è una malattia trasmissibile solo per contatto interumano, non ha serbatoi animali come la TBC, né ambientali, come il colera e il tifo (acque), presentando gli stessi problemi del vaiolo riguardo al suo controllo sociale ma, a differenza del vaiolo, essa è trasmessa anche da portatori sani, che hanno un ruolo nella ripresa epidemica della malattia, allorquando le difese immunitarie della popolazione sono diminuite.
Non era la stessa cosa per malattie importate come il colera, il cui contagio avveniva attraverso le grandi vie di comunicazione, più facilmente controllabili allorché si verificavano le ondate epidemiche.
Si rendeva perciò necessario avere a disposizione un vaccino che desse un’immunità attiva e duratura da estendere a tutta la popolazione, per interrompere il circolo vizioso della ciclicità della malattia, non controllabile con la siero-profilassi.

(11)Conferenza tenuta alla Società Reale di Londra nel 1889.
(12)Congresso medico di Londra del 1891.
(13)Congresso medico di Londra del 1891.
(14)Più noto come studioso della malaria e dell’attività terapeutica della chinina, fu deputato al parlamento del Regno per  21 anni consecutivi. Fu medico socialmente e politicamente impegnato, autore del grande Trattato di Medicina sociale (Milano 1908). Egli sosteneva che “ la clinica o medicina individuale cura i malati, mentre l’igiene pubblica o medicina sociale risana le cause di malattia”.

La vaccinoprofilassi antidifterica.
Due vie erano percorribili per realizzare un vaccino antidifterico:a) quella di rendere innocuo il germe;b) quella di indurre l’immunità contro la tossina.
Abbiamo visto come Behring chimicamente e Roux con dosi sub-patogene fossero riusciti a immunizzare animali contro la difterite. Nel 1887 Pio Foà e Augusto Bonome immunizzarono animali con colture filtrate e sterilizzate al calore di un germe tossigeno del genere Proteus. Ma tutti questi esperimenti non andarono oltre le prove su animali.
Quando Behring, Roux, Park e al. provarono ad iniettare miscele di tossina e di anticorpi ottennero reazioni talmente gravi da dover sospendere la sperimentazione.
L’orientamento successivo fu perciò quello di rendere innocua la tossina difterica.
Nel 1898 Ernst Salkowsky modificò una tossina trattandola chimicamente col formolo, ottenendo un prodotto, da lui chiamato tossoide, che aveva perso il potere patogeno conservando il potere immunizzante. La strada era quella giusta. Il successivo passo fu fatto parecchi anni dopo, nel 1921, da Glenny e Sudmersen, che applicarono questo metodo alla tossina difterica, ma senza riuscire a formulare un vaccino. Ma il traguardo era vicino, perché già nel 1923-25 Léon Gaston Ramon, dell’Istituto Pasteur, riuscirà a mettere a punto un’anatossina difterica inattivando la tossina difterica con formolo al 4 per mille che si rivelò stabile e irreversibile.
Ramon perfezionò ulteriormente la propria scoperta aumentando notevolmente il potere immunizzante della sua anatossina con l’aggiunta di tapioca e diverse altre sostanze(15).

(15)Oggi il vaccino contro la difterite, come quello contro il tetano, viene preparato a partire dalla tossina, trattata con formolo e sottoposta successivamente a purificazione e ultrafiltrazione. Il successivo adsorbimento su particelle di fosfato o idrossido di alluminio potenzia l’azione immunizzante dell’anatossina


Schick mise a punto una reazione cutanea che permetteva di rendersi conto se il soggetto era immune o no dalla difterite. Infatti lui e altri avevano scoperto che l’inoculazione nella cute di una sostanza estratta dal bacillo difterico provocava una reazione circoscritta nelle persone non immuni, mentre la reazione era negativa nelle persone immuni. Questa scoperta permise di approfondire lo studio epidemiologico della malattia, della sua reale diffusione anche in rapporto ai portatori sani, della reale efficacia della vaccinazione, perché anche l’immunità acquisita artificialmente attraverso la pratica vaccinale rendeva negativa la reazione cutanea.


Il vaccino antidifterico a base di anatossina fu utilizzato per la prima volta in Francia in diverse scuole primarie, in istituti sanatoriali e nell’esercito con risultati vistosi. Dove il vaccino riuscì a coprire un’elevata percentuale di bambini, calcolabile dal 66 al 90 % il corso dell’epidemia difterica si arrestò, mentre questa continuò a mietere vittime laddove il vaccino copriva solo una minima percentuale della popolazione. Questo è quanto emerse dai primi risultati comunicati dal 1929.
In Italia la vaccinazione antidifterica si diffuse molto presto perché il nostro Paese fu tra i primi ad adottarla in Europa. Già nel 1929 il Ministero dell’Interno incoraggiava la vaccinazione nella popolazione infantile e nel 1930 il Podestà di Genova la rendeva addirittura obbligatoria nel comprensorio. Il 6 giugno1939 il decreto legge n. 891 la rendeva obbligatoria in tutto il Regno in associazione alla vaccinazione antivaiolosa.
Nonostante ciò i ritardi nell’applicazione della legge ci furono e furono dovuti alla scarsa capacità di persuasione del medico di fronte alle famiglie recalcitranti per insufficiente informazione e/o per prevenzione culturale, quando, addirittura, il medico non si rendeva complice di false certificazioni, fenomeno che durò molto a lungo.
Durante la II Guerra Mondiale ci fu una recrudescenza della malattia essendo la situazione sfuggita di mano alle autorità sanitarie per ovvii motivi. Ciò portò a circa un milione di casi di difterite con 50.000 morti, Russia esclusa. L’unico paese ad essere risparmiato da questa recrudescenza epidemica fu l’Inghilterra.
Quando negli anni ’50 ci fu la ripresa delle campagne vaccinali si ebbe una drastica riduzione della malattia. In Italia, per esempio, si passò dai trenta casi del 1952 agli zero casi del 1989.
Tuttavia lo smembramento dell’Unione Sovietica ha comportato una caduta delle politiche vaccinali dei vari stati che la componevano con la comparsa di epidemie di dimensioni preoccupanti.
In Italia la vaccinazione antidifterica in associazione alla vaccinazione antitetanica, che fu resa singolarmente obbligatoria nel 1966, è stata resa obbligatoria con nuova legge del 20 marzo 1968, n. 419.

 

BIBLIOGRAFIA

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25/6/2010

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