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dal passato al presente
La storia dell'abbandono e dell'infanticidio ci narra di violenze subite nei secoli dai bambini. Ancor oggi il bambino è vittima di atrocità, anche se vi sono leggi internazionali atte a proteggerlo.
a cura di: Dott. Antonio Semprini (pediatra)
Questa storia ha inizio nella notte dei tempi, quando gli dei divoravano i propri figli e gli uomini sacrificavano al Dio Moloch i loro primogeniti. Solo nel Corpus Iuri Civilis, promulgato da Giustiniano nel 529, al bambino sarà riconosciuta personalità giuridica, cessando di essere semplicemente un oggetto di proprietà di cui ci si potesse disfare senza problemi. Tuttavia, a distanza di secoli, ancor oggi il bambino è vittima di ogni sorta di violenze anche se non mancano severe leggi internazionali che lo proteggono e sanciscono i suoi inviolabili diritti. Ma se le leggi sono fatte per essere violate (che senso avrebbe infatti una legge se quanto essa sancisce fosse connaturato ai costumi di quella nazione?) allora bisogna essere convinti che solo un diverso approccio etico, culturale e sociale, forse, potrà risolvere il problema.
La letteratura mitologica greca, come si può apprendere dalla “Teogonia” di Esiodo, è ricca di episodi dove i figli sono sacrificati nei modi più orrendi. Saturno-Kronos cui era stato profetizzato che sarebbe stato detronizzato da uno dei figli, per non perdere il potere, si mise a divorarli. Tra questi solo Giove-Zeus si salvò, perché a Kronos venne consegnata una pietra avvolta in un fardello al posto del neonato. In seguito Zeus spodesterà il padre Kronos e lo obbligherà a rigurgitare i figli che aveva divorato, tra cui Nettuno-Poseidon.
Pelope viene cucinato da suo padre Tantalo e dato in pasto agli dei dell’Olimpo per mettere alla prova la loro onniscienza, ma essi se ne accorgono.
Eschilo nell’ ”Agamennone” e Seneca nel “Tieste” narrano la vicenda tragica di Tieste, figlio di Pelope e di Ippodamia, fratello di Atreo, re di Micene. Tieste si ciba a sua insaputa delle carni dei suoi tre figli che gli vengono dati in pasto per odio dal fratello Atreo. Sofocle ci racconta il mito di Edipo, figlio di Laio, re di Tebe, e di Giocasta, Edipo viene abbandonato dal padre per un oracolo funesto e viene ritrovato dal pastore Forba. Il resto è arcinoto. Euripide racconta invece, per primo, di Medea, la quale per vendicarsi del tradimento di Giasone suo sposo, che la ripudia per sposare Creusa, figlia di Creonte re di Corinto, dopo avere avvelenato Creusa e Creonte, per assicurarsi che Giasone non abbia discendenti, uccide i figli avuti da lui e ne divora le carni.
Del mito greco, ma qui siamo già nella protostoria, fa parte anche Asclepio – Esculapio che il padre Apollo consegna al centauro Chirone (che lo ammaestrerà nell’arte della medicina), dopo averlo estratto dal ventre della madre Coronide che da Apollo stesso aveva concepito il bambino. (ma Apollo sospettava un tradimento).
Tra la leggenda e la storia abbiamo l’episodio di Romolo e Remo. Essi vennero esposti sulle rive del Tevere dopo che la madre Rea Silvia, vestale sedotta dal Dio Marte, venne fatta uccidere da Amulio. Essi furono allattati da una lupa, secondo la leggenda, e verranno trovati e adottati dal pastore Faustolo. Romolo, un bambino esposto, sarà il futuro fondatore di Roma. A grandi destini andarono incontro alcuni di questi bambini abbandonati, se pensiamo a Zeus, divenuto re dell’Olimpo, a Asclepio, divinizzato come dio della medicina, Mosè che riceverà le tavole della legge da Dio stesso e Romolo, fondatore e primo re di Roma. La leggenda del Minotauro cui vengono dati in pasto i fanciulli va fatta risalire all’usanza di sacrificare bambini al dio Moloch in ambito Medio-Orientale (Fenici e Cartaginesi). Gustave Flaubert nel suo romanzo “Salammbò” fa una drammatica ricostruzione del rito sacrificale cartaginese nel quale i bambini, legati mani e piedi, vengono fatti cadere nel fuoco per placare le ire del dio Moloch. Lloyd de Mause riferisce che sacrifici di fanciulli erano praticati dai Celti d’Irlanda, dai Galli, dagli Scandinavi, dagli Egizi, dai Fenici, dai Moabiti, dagli Ammoniti, e, fino a un certo periodo, dagli Israeliti, finchè Mosè non ne impose la proibizione pena la lapidazione. Lo stesso Mosè fu un trovatello, abbandonato in una cesta alle acque del Nilo per salvarlo dalla persecuzione del faraone, nella speranza che fosse trovato, come infatti avvenne.
Ma entriamo in ambito storico e andiamo a vedere quale fosse la condizione del bambino nella Grecia antica.
Nella Grecia antica le legislazioni di Licurgo e di Solone consentivano l’abbandono e l’infanticidio. Il fenomeno riguardava soprattutto le figlie perché queste costituivano un peso per la famiglia che doveva fornirle di dote perché potessero trovare marito. Solitamente veniva fatta sopravvivere una sola femmina. La condizione di zitella costituiva una vergogna sia per l’interessata che per la sua famiglia; perciò la legge prevedeva che il padre della fanciulla potesse sbarazzarsene vendendola come schiava. Nulla veniva fatto per scoraggiare l’aborto, l’infanticidio e l’abbandono che erano considerati comportamenti comuni.
Dalle “ Vite parallele, Vita di Licurgo” (Plutarco)
“Il genitore non era padrone di allevare il figlio, ma doveva prenderlo e portarlo in un luogo chiamato “lesche”. Là erano in seduta i più anziani della tribù che esaminavano il piccolo: se era ben conformato e robusto ordinavano di allevarlo e gli assegnavano uno dei novemila lotti di terra. Se invece era malato e deforme lo inviavano ai cosiddetti “depositi”, una voragine nelle pendici del Taigeto."
A questo modo di veder le cose non si sottraevano neppure i grandi pensatori. Platone, infatti, approvò l’infanticidio in caso di gravi malformazioni e non ammise che ”i figli di nessuno” potessero entrare a far parte della sua Repubblica ideale.
Così si esprimeva Aristotele: ”Per ciò che riguarda l’abbandono o l’allevamento dei neonati, deve esserci una legge che non permetta di allevare i figli deformi; ma circa il numero dei bambini, se gli usi e i costumi impediscono il loro abbandono, dev’esserci un limite alla loro procreazione”.
Aristippo a sua volta pensava che un uomo potesse fare ciò che voleva dei suoi figli affermando cinicamente che essi: ”(…) eliminano saliva, pidocchi e simili, come cose inutili, pur essendo prodotte ed avendo origine da noi stessi”.
Che il bambino fosse semplicemente un oggetto di cui facilmente sbarazzarsi, ma anche uno strumento di spassoso divertimento lo si può vedere nella “Commedia nuova” dove spesso l’infanticidio è considerato un motivo esilarante, come nella Samia di Menandro, dove il divertimento e le risa degli spettatori sono suscitati da un uomo che cerca di fare a pezzi e di arrostire un neonato.
Ma c’era anche qualche voce dissenziente, come quella dell’oratore ateniese Isocrate che era contrario all’abbandono dei neonati e lo citava insieme all’assassinio, all’incesto, all’annegamento e all’accecamento.
A Tebe, inoltre, l’infanticidio era vietato, ma in caso di estrema miseria i genitori avevano la facoltà di vendere il bambino attraverso un magistrato preposto. A Tebe l’esposizione dei fanciulli era considerata un crimine punibile con la morte.
Le cause dell’abbandono nell’antica Grecia erano molteplici e potremmo riassumerle così:
Nell’antica Roma il fenomeno dell’abbandono ricalcava nelle motivazioni quello dell’antica Grecia. Il bambino era un “nihil”, una cosa da nulla il cui destino era dipendente dalla “patria potestas” esercitata dal padre (pater familias). Alla “levatio” ostetrica faceva seguito la “elevatio” del padre che lo sollevava all’altezza degli occhi per il riconoscimento formale. Dopo la elevatio il padre gli faceva il bagno lui stesso, lo avvolgeva nelle fasce e lo deponeva nella culla. Il nome veniva imposto dal padre stesso in decima giornata festeggiando l’evento. Se il bambino era rifiutato allora avveniva la “expositio” del neonato fuori dalla porta di casa. La Legge delle XII tavole promulgata da Romolo, sanciva che un padre potesse vendere i figli fino ad un numero massimo di tre, pena la perdita della patria potestà (patria potestas). La patria potestà era incarnata dal padre del bambino (paterfamilias) che era l’unico ad avere personalità giuridica in ambito famigliare ed esercitava il suo potere di vita e di morte (ius vitae necisque) sulla moglie e sui figli. Tuttavia Romolo aveva vietato ai padri di uccidere i figli di età inferiore ai tre anni (bontà sua!).
Seneca sosteneva che l’infanticidio dovesse riguardare soltanto i bambini malati e dichiarava: ”Uccidiamo i cani idrofobi con un colpo alla testa, abbattiamo il bue furioso e selvaggio, accoltelliamo la pecora malata per evitare che infetti il gregge, distruggiamo la progenie snaturata, affoghiamo anche i bambini che al momento della nascita siano deboli o anormali !”.
I luoghi dell’abbandono in Roma erano le rive del Tevere oppure il Foro Olimpico. Nel Foro Olimpico sorgeva la “Colonna lattaria”, attorno alla quale si aggiravano donne disposte ad offrire latte ai bambini esposti, megere che li usavano per la preparazione di filtri e veleni, aruspici che ne facevano strumenti di operazioni magiche, nutricatores che raccoglievano i piccoli derelitti e li allevavano per farne schiavi da vendere, gladiatori, eunuchi, prostitute o fenomeni da baraccone dopo averne deformate le sembianze con mutilazioni e storpiature.
Devono passare molti secoli prima che in Roma cominci a spirare un vento di maggiore umanità verso i minori.
La legge Tutela Italiae promulgata da Traiano (53-117d.C.), proibiva di trattare come schiavi i bambini trovati o comperati se erano nati liberi, ma se erano nati schiavi restavano nella loro condizione di schiavi. Era una legge discriminante, ma dobbiamo tenere conto che la schiavitù si protrasse nel nostro Mondo Occidentale evoluto fino al XIX secolo. Lo stesso Traiano aprì a Velleja(3) un grande ricovero degli esposti e degli orfani abbandonati, istituì collegi per ragazze e ragazzi poveri e per gli orfani dei suoi legionari.
I bambini avevano un elevato valore commerciale se allevati come schiavi o per altre mansioni più o meno redditizie per non dire disumane, come quando l’acquirente apparteneva alla specie dei nutricatores. Per questo motivo essi erano anche oggetto di rapimenti, esulando il fenomeno da quello dell’abbandono. In questo caso la legge romana puniva con la morte i rapitori di bambini, probabilmente perché in questo modo veniva ferita la patria potestà del paterfamilias che era l’unico a poter decidere sulla sorte dei propri figli e anche perché si voleva punire la speculazione commerciale che ne derivava.
L’avvento del cristianesimo fece spirare un vento nuovo sulla società umana dei primi secoli della nostra Era per un nuovo approccio all’essere umano e si diffusero modi di sentire fino ad allora sconosciuti alla morale comune, come quello della “pietas” e della “caritas”. Con questo non si vuol dire che nel passato pagano non potessero esserci state persone generose e umane per il loro connaturato sentire, ma che era la filosofia di vita generale della cultura pagana ad essere improntata alla legge del più forte per una sorta di darwinismo sociale “ante litteram”. La legge del taglione tardò molto a scomparire per essere sostituita dalla “proposta” evangelica del “porgi l’altra guancia”.
Ma questa passaggio è mai avvenuto?
Lo strumento attraverso il quale il Cristianesimo pose l’accento sulla necessità di rispettare la vita umana fu l’affermazione della sacralità della vita umana stessa che veniva confermata dal rito battesimale. Per questo motivo la sollecitudine della Chiesa nei confronti dei bambini abbandonati fu dettata non solo dalla preoccupazione per la loro sopravvivenza e la loro salute fisica, ma anche dal timore che essi morissero senza essere stati battezzati. Questa preoccupazione di ordine spirituale fu un incentivo alla ricerca di rimedi per il recupero dei bambini esposti.
Il primo imperatore convertito al Cristianesimo, Costantino (260-337 d.C) fece varare una legge che condannava con la pena dei parricidi, la morte, coloro che uccidevano i propri figli, annullando l’antica legge dello ius vitae necisque che era stata per secoli diritto inviolabile del paterfamilias. Tuttavia la legge romana non proibiva l’abbandono dei bambini neppure sotto Costantino, anche se il primo padre della Chiesa, Atenagora (II sec.) aveva formulato una dichiarazione di principio sul problema dell’abbandono scrivendo che ai cristiani è proibito l’abbandono perché ciò equivale ad un omicidio; ma nel IV secolo (il secolo di Costantino) S.Ambrogio considerava la povertà sia temporanea che permanente come una giustificazione per l’abbandono.
In occasione del Concilio di Nicea, che Costantino aveva indetto nel 325 per risolvere problemi di carattere teologico relativi all’eresia ariana, lo stesso imperatore decretò che lo stato dovesse mantenere i bambini abbandonati, creando le premesse per la costituzione degli orfanotrofi. Nelle province orientali dell’Impero Romano, dopo l’avvento di Costantino, S.Basilio Magno (329-379), vescovo di Cesarea di Cappadocia, fondava un grande complesso ospedaliero che da lui prese il nome di Basiliade. In quel grande complesso, definito dai contemporanei una delle meraviglie del mondo, S.Basilio faceva accogliere sia i bambini allattati al seno (brefotrofio) che quelli orfani (orfanotrofio).
A livello privato c’erano le persone di buon cuore che raccoglievano i bambini abbandonati, li adottavano e li allevavano come figli propri. Questi figli adottivi erano chiamati “alumni”.
Nel V secolo Galla Placidia, figlia dell’imperatore Teodosio, accoglieva nel suo palazzo di Ravenna i bambini abbandonati nelle strade e sui sagrati delle chiese.
Bisognerà attendere però l’epoca di Giustiniano (VI secolo ) perché i diritti del bambino siano sanciti per legge, quando nel 529 lo stesso Giustiniano fece raccogliere e integrare le leggi romane in un unico corpus che prese il nome di Corpus Iuri Civilis in cui, ricalcando una disposizione di Valentiniano, Valente e Graziano del 374, sono approvate leggi in difesa dell’infanzia abbandonata, equiparando, tra l’altro, l’abbandono all’infanticidio. Nel Corpus Iuris Civilis è prevista anche la tutela da parte di un “tutor” per i ragazzi fino a 14 anni e le fanciulle fino a 12 (impuberes). Col raggiungimento della pubertà la legge li considerava capaci di assumersi la responsabilità dei loro atti, anche se si rendeva necessaria la presenza di un “curator” che li assisteva negli affari pubblici fino all’età di 25 anni. Con Giustiniano per la prima volta il bambino diventa “persona giuridica”.
Dopo il collasso del potere civile seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (non fu così nella parte orientale dell’Impero dove la “nuova Roma” era ormai Costantinopoli), l’unica autorità presente nelle nostre contrade occidentali era rimasta quella della Chiesa che con le sue parrocchie e i suoi monasteri fu per secoli il solo polo di attrazione e di aggregazione della popolazione ormai preda delle invasioni barbariche e della miseria con conseguente regresso sociale e culturale e la perdita del contatto con le proprie civili radici. Delle leggi di Giustiniano si persero le tracce (che furono ritrovate con la rinascita del XII secolo) e furono sostituite dalle leggi barbariche.
La religione comune era comunque quella cristiana e i bambini non verranno più appesi alle piante o abbandonati sui cigli delle strade o, come nell’antica Roma, nel Foro Olimpico alla Colonna lattaria, ma deposti sui sagrati delle chiese prima, alla “ ruota degli esposti” più tardi…ma le acque del Tevere erano sempre pronte ad accoglierne un certo numero.
Sarà soprattutto la Chiesa a interessarsi di questo problema, almeno in un primo periodo, ma i risultati della “ruota” non saranno incoraggianti e questa sarà una lunga storia che non finisce qui.
(1) L’incesto poteva essere anche involontario, come nel caso di Edipo. Il problema del rapporto incestuoso influenzerà notevolmente i comportamenti extra coniugali dei Greci e dei Romani nel dubbio che la giovane donna frequentata nel lupanare potesse essere la figlia esposta alla nascita.
(2) In alcuni casi il bambino veniva appesa ad una pianta per impedire che fosse divorato dagli animali selvatici e per far sì che qualcuno lo vedesse e lo adottasse.
(3) Velleja, in provincia di Piacenza
BIBLIOGRAFIA
Parte prima: dall'Antica Grecia fino al Cristinaesimo
Parte seconda: storia dell'abbandono e infanticidio nel Medioevo
Parte terza: dal XII secolo ai giorni nostri
15/9/2010
15/9/2010
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